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30 ott 2007
SECONDO GRANDE APPUNTAMENTO CON LA MIA AMICA SCRITTRICE F.REGNA........non perdetevelo
“STRONZ...ARIA…quando l’intimità è nell’aria, ossia del peto come conquista dell’intimità”
di F.REGNA
“Soccia, ma s’ut scapa da scurzé?” ossia, perbacco, ma se dovesse scapparti un peto? mi ha chiesto la mia amica Anna Giulia quando le ho annunciato che andavo a vivere a 500km di distanza, con uno che avevo conosciuto in ferie sei settimane fa. Niente commenti scontati del tipo ma sei sicura di conoscerlo? ma non sarà un serial killer? E se fosse un busone irrisolto? E se salta fuori che ha due figli in Brasile? O peggio ancora, due figli e un ex moglie a due isolati da casa?
E via, cosa saranno mai queste banalità davanti alla problematica più viscerale dell’intimità vera?
Insomma, dopo che sei stata in bagno quei novanta minuti (tanto quello non se ne accorge, ci sarà di certo una partita in tv) dopo che ti sei depilata, dopo che ti sei lavata le ascelle e ti sei fatta il bidè, dopo che ti sei sciacquata con il collutorio, ti sei messa il baby doll e tutto il resto, allora proprio quando, accoccolata sul suo petto, sotto un lenzuolo di seta, inizia a calarti la palpebra…se ti si dovesse rilassare lo sfintere, allora cosa fai?
A vut c’a s-ciopa, diceva, da quel romagnolo sanguigno che era, mio nonno buonanima, mentre, esattamente come il nonno delle barzellette, s’inclinava di lato sulla sedia, caricava la natica sinistra, liberava la destra, scostando appena l’orifizio dal cuscino e la mollava, con un retrofischio di soddisfazione. A vut c’a s-ciopa, diceva in romagnolo, scivolando con la dentiera sulla s, un po’ per la forza di quella lingua arcaica e barbara, un po’ perché quella parola s-ciopa, così schietta, già anticipava l’evento (o il…vento).
Insomma, non vorrete mica che mi scoppi il ventre per i vostri falsi pudori, dichiarava, scoreggiando allegramente a tavola, in chiesa e ovunque gli paresse. E mica mollava di quelle scoregge mute, perbeniste, borghesi…di quelle ipocrite omertose (o…merdose?) e opportuniste che infettano l’aria senza un suono, come un’arma chimica o come le radiazioni? No. Erano allegri e rumorosi peti contadini, di quelli con il gorgoglio, con il fischio e con il rinculo come i cannoni napoleonici che fieramente si opponevano al potere del papa in Romagna ai tempi del brigante Passatore. A volte erano spetazzi allegri e scoppiettanti come fuochi artificiali alla fiera di san Lazzaro in Borgo. Ma sempre e comunque si annunciavano con forza e con un persistente afrore di stallatico che gli inumidiva gli occhi per la commozione, perché gli faceva venire in mente quella bella borella (c’est à dire quella bella vacca) pezzata che partoriva sempre due vitelli e che morì di malinconia quando lui partì per i militari.
I peti, come locuzioni nel linguaggio dell’intimità, appartengono al lessico familiare. La famiglia, in senso istituzionale e in senso lato, insomma, è anche il luogo dove si condividono i peti, quali espressioni del proprio tono di voce più interiore. Un’intimità così sentita che ammette anzi richiede perfino una sorta di rovesciamento ironico in senso filologico, per essere interiorizzata senza traumi Av faeg un pett c’av bott zo è casètt… dice Ezechiele Lupo ai tre porcellini nella versione romagnola della favola: “Vi faccio un peto che vi butto giù la capanna.” Il peto “disfa” la casa, perché IL PETO FA LA CASA. Anche l’esorcismo che passa attraverso la favola serve a accettarlo.
Ci si sente subito in famiglia, nasando quelle silenziose, secche e vagamente chimiche di mamma, scoregge ospedaliere che sanno di disinfettante e di ora del riposo in corsia. Oppure con quelle un po’ beghine della zia Rina, lunghe e mormorate come una litania, sgranate in serie come un rosario – ho preso la medicina per il mal di testa che mi fa aria- piccola messinscena da signora un po’ decadente, per non ammettere di aver trangugiato un chilo di pesche con il pelo, e quelle gonfiano, e fanno aria… E si è sempre a casa con quelle circensi di babbo, che del tendone e serraglio hanno i suoni, il sentore e tutta l’allegria. Aria di casa, che ti fa sospirare quando sei lontano, nel gas di una città straniera, altro che il rigatone delle Barilla nascosto nella tasca. Dove c’è scorreggia, c’è casa.
Quindi, amica mia, dopo che mi sono depilata, sciacquata, dopo che ho fatto i gargarismi con il Saugella e il bidè con il Froben, se dovesse scapparmi un peto, cosa posso dire: “A vut c’a s-ciopa?”
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