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19 mag 2007



Pensiero a me dedicato da ROSEMARY RANDI (scrittrice).

DON’T LET ME DOWN


Ce ne stavamo così, quel giorno di giugno, stipati tutti e quattro nella Cinquecento di Massimo, lanciata a tutta birra per i viottoli polverosi della campagna circostante.
Era caldo e Giulia che a quei tempi era cucita tutt’uno con Massimo, a tratti gesticolava vivace e chiacchierava e a tratti metteva la testa ricciuta fuori dal finestrino e se ne ritornava subito dopo dentro con una risata argentina.
Sandro stringeva con una mano il volante e con l’altra ora le accarezzava una fossetta e ora si portava alla bocca una sigaretta che aspirava avidamente a scatti nervosi.
Io e Bianca eravamo raggomitolate nei sedili posteriori e lei, quel pomeriggio, appariva più allegra del solito, più disposta a giustificare suo fratello per essersi messo con una testa matta come Giulia, che una volta, in treno, mentre bigiava la scuola, aveva staccato una tendina da cui se era fatta confezionare una borsa, che esibiva con spensierata disinvoltura.
Certo Bianca, precisa e ligia ad dovere com’era, non ammetteva simili mattate, né tante altre licenze di Giulia, come quella di far fuori, in pasticceria, quattro tramezzini, per poi dichiararne alla cassa soltanto due.
Massimo, peraltro, che era un tipo scanzonato, più preso dal suo saldatore e dal suo trapano che dal latino e dalla filosofia, i jeans sdruciti e un’aria perennemente arruffata, vuoi per ciuffo ribelle, vuoi per gli occhi azzurri che al mattino, durante le prime due ore di lezione, se ne stavano socchiudi e arrossati e come infastiditi dalla volgare luce del giorno, era cottissimo della sua Giulia, al punto da essersene tatuato il nome, come pegno indelebile d’amore, sul dorso della mano. E se la coccolava tutta, la chiamava con un nomignolo affettuoso e buffo che si addiceva a lei, così pienotta ed esuberante com’era, e a tratti ancora bambina.
Bianca sorrideva e scuoteva ogni tanto la testa, emettendo qualche vago sospiro, ma io che conoscevo bene, capivo che si stava sciogliendo, contagiata dall’allegria degli altri due.
Era strano che Bianca avesse partecipato a quella gita, lei che non faceva un passo senza Carlo, probabilmente alle prese, quel pomeriggio, con qualche esame di economia o giù di lì.
Non mi piaceva Gabriele, con quella sua rigidità e quell’aria tracotante e sicura di sé e quel suo rivolgersi ad Anna come se lei fosse una sua personale proprietà. La mia antipatia scaturiva anche dal fatto che in più occasioni lui mi aveva lasciato capire che io, amica di Bianca fina dalla scuola materna, mi dovevo far da parte, come se fosse possibile cancellare la nostra condivisione con un colpo di spugna.
Eppure quel giorno – forse erano i primi di giugno e noi eravamo elettrizzati per la fine dell’anno scolastico che si avvicinava e per l’ormai imminente inizio delle vacanze estive – di Carlo e della sua supponenza non si avvertiva nessuna traccia e io e Bianca potevamo riprendere a tessere il filo della nostra amicizia per me così preziosa, l’ancora a cui mi aggrappavo nei momenti di depressione e di crisi per qualche insuccesso scolastico o per qualche baruffa familiare o qualche amore non ricambiato.
E anch’io mi sentivo insolitamente allegra, e disposta, diversamente dal solito, non so, a una maggior spensieratezza, a un’allegria più larga e da afferrare a piene mani, estranea alla mia riservatezza, alla timidezza che mi impediva, solitamente, di lasciarmi andare e di bere a grandi sorsate ciò che offriva di bello la vita.
Poi all’improvviso, Giulia si è messa a canticchiare poi a cantare e infine a urlare, con quella voce bella e un po’ roca – don’t leti me down – e noi tutti le siamo andati dietro, anch’io, così stonata com’ero.
E mi sentivo veramente felice e mi sembrava di avere acchiappato una favilla scintillante, una rara farfalla colorata da trattenere almeno un attimo fra le dita, prima di lasciarla di nuovo libera di spiccare il volo, come di lì a poco avrebbe, inesorabilmente, fatto.
Sono appena le tre e dieci e fa caldo, un riesco a riprendere sonno in quella lunga notte di fine agosto.
Chissà, poi, come se ne sono riemersi questi vividi fotogrammi scanditi dal ritmo di Don’t let me down, ribelle preghiera lanciata vanamente al vento in quel lontano pomeriggio di giugno.
Perché poi la vita ci avrebbe tradito e diviso, ci avrebbe gettato per strade diverse e solo di sfuggita ci saremmo incrociati di nuovo, noi che eravamo stati, per un attimo, passeggeri dello stesso viaggio e forse partecipi di uno, stesso, identico, destino.

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